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«Impossibile vedere e sentire mia mamma ricoverata. Ma non dovevamo uscirne migliori?»

Una residente di Massa scrive alla Voce Apuana: «La sanità si dovrebbe preoccupare del paziente a 360 gradi perché non può e non deve essere riconducibile a mero distributore di medicinali e macchinari»

MASSA – «Sono ormai passati 2 anni dall’inizio della pandemia e ancora, malgrado tutti i sacrifici che medici, infermieri e personale sanitario tutto ha sostenuto e sostiene per far fronte a quella che ancora chiamiamo emergenza, il sistema-ricoveri per Covid pare essere rimasto impermeabile alla non secondaria esigenza di tenere costantemente in contatto pazienti e relative famiglie». Inizia così la lettera che una residente di Massa ha voluto inviare alla Voce Apuana per denunciare la sua situazione, che ricalca quella di tanti altri pazienti in questo periodo in cui le visite nelle strutture sanitarie hanno subìto un altro stop.

«È questo – scrive – quello che si evince da un sistema che di tutto si occupa meno che di rendere i giorni interminabili, critici, drammatici, qualche volta ultimi di una persona ricoverata Covid, minimamente umani permettendo, se non di vedere e toccare, quanto meno di sentire le persone vicine, figli, sorelle o padri che, a loro volta, rimangono inermi all’esterno di una bolla che dà loro solo indicazioni mediche che, seppur importanti, non possono colmare il vuoto e lo sconforto che produce l’idea di non poter far nulla, nemmeno rivolgere una parola al proprio congiunto».

«È quello accaduto a me e a mia madre, persona anziana con patologie pregresse e alcuni problemi neurologici che non le permettono di essere pienamente autosufficienti o comunque in grado di utilizzare neanche un telefonino di vecchia generazione per poter ricevere, seppur in via meccanica, quanto meno una parola di conforto, sostegno, vicinanza. Ricoverata al Noa, reparto Covid, non sono mai riuscita ad avere un contatto, seppur telefonico, con lei, se non all’ottavo giorno(!), e solo grazie all’intercessione di una gentilissima infermiera del reparto che, alle mie lamentele circa l’impossibilità di accedere al servizio di videochiamata previsto per questi casi (dopo aver provato ogni giorno nei modi e negli orari indicati dal protocollo) ha accolto il mio malessere e mi ha permesso di rassicurare e, al contempo rassicurarmi, circa le condizioni di salute psicofisiche di mia madre».

«Non è cambiato molto neppure quando, trasportata dal Noa al presidio per le cure intermedie, abbiamo saputo che questa realtà prevede contatti con l’esterno solo una volta a settimana da parte del medico che telefona ai familiari per mettere al corrente sulle condizioni di salute. Insomma, chi ha la fortuna, avendo scampato le tragiche complicazioni che il Covid può causare, di accedervi, si ritrova però completamente solo. Possibile che il sistema sanitario non riesca a rendere concreta ed effettiva la possibilità di stare vicini ai propri congiunti in questi momenti drammatici?».

«Spesso la vicinanza delle persone care fa la differenza nei decorsi per malattia. E che dire poi dei parenti che, a casa, aspettano minuto per minuto notizie dall’ospedale di turno, spesso per settimane, vivendo impotenti interminabili giornate di paura e sconforto? E chi ha problemi di instabilità emotiva? Chi soffre di depressione? Chi non riuscirà, come noi, a uscire da tutta questa situazione con un esito positivo? La sanità che vorrei, per me, mia madre e tutta la collettività, è una sanità che si preoccupi del paziente a 360 gradi perché non può e non deve essere riconducibile a mero distributore di medicinali e macchinari».

«E non è giusto che il sistema scarichi sui singoli medici, infermieri e sanitari, il compito di sopperire alle mancanze che stanno a monte: non è accettabile che la bontà, la gentilezza e l’empatia di chi lavora debba fare la differenza. Perché la vera differenza dovrebbe farla un sistema che sostiene queste persone e non che scarica loro ulteriori responsabilità. Ma non dovevamo uscirne migliori?».